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Partecipazione, inclusione e coinvolgimento nella terza età

Secondo i dati Istat 2018 il 38,3% degli italiani sopra i 74 anni vivono da soli. Secondo la stessa ricerca il 40% dei soggetti al di sopra dei 75 anni non ha parenti né amici cui rivolgersi in caso di bisogno e l’11% può chiedere sostegno solo ad un vicino di casa.

L’evoluzione che è in atto nella società, con alcune delle sue caratteristiche più tipiche come la diminuzione della natalità e l’aumento dell’età media della vita, va nella direzione di un futuro in cui sarà sempre di più la popolazione anziana e moltissime persone in età avanzata costituiranno famiglie unipersonali.

Gli anziani hanno vissuto le gioie di una famiglia tradizionale e partecipata (spesso anche “affollata”) ma sperimentano adesso la lontananza fisica e/o affettiva dei figli e, a volte, la perdita del proprio compagno di vita.

Spesso sono anche marginalizzati perché si tende a preservare solo ciò che è profittevole, funzionale alla società stessa. Eppure, a ben vedere, gli anziani non sono necessariamente condannati all’improduttività e nemmeno all’emarginazione: molti di loro svolgono già attività fondamentali per quanto non retribuite. Si pensi all’accudimento dei nipoti o all’impegno in settori come quello del volontariato e della cultura.

Riconoscere la loro utilità e lavorare al fine di stabilire una nuova cultura secondo la quale l’anziano è pienamente coinvolto e partecipe all’interno della società è possibile e costituisce anche un’interessante risposta al problema dell’invecchiamento collettivo.

Questa riflessione ci sembra valida anche in un contesto assistenziale. L’assistenza agli anziani non dovrebbe mai tradursi in una sorte di “istituzionalizzazione” e normalizzazione di una condizione di esclusione della persona. I ricoveri ospedalieri e nelle case di cura, invece, producono spesso questo effetto. La persona anziana, distolta dal contesto familiare ed affettivo, sperimenta un’alienazione che rende ancora più difficile la cura e l’accudimento che hanno motivato il ricovero. Spesso ci si mettono anche le difficoltà comunicative con i medici e gli specialisti, che aumentano la sensazione di incertezza e frustrazione.

L’assistenza domiciliare permette invece di realizzare una collaborazione tra la famiglia dell’assistito e gli operatori socio-assistenziali, che insieme arrivano a costituire, a volte, una sorta di famiglia allargata, che si stringe attorno alla persona aumentandone gli stimoli, le amicizie, le occasioni di condivisione ed inclusione.

Si tratta di una società in miniatura nella quale l’anziano può ritrovare sollecitazioni e gioia di fare laddove, per esempio, una piena partecipazione alle attività sociali generali non sia possibile per uno stato di salute precario o per la totale mancanza di autosufficienza.

Naturalmente, perché questo di realizzi, è necessaria la giusta mentalità, il concepire l’assistenza non esclusivamente come un provvedere ai bisogni igienici o di alimentazione della persona, ma come un nutrimento anche per lo spirito, un’occasione di espressione della propria personalità.

Secondo noi una valida badante non dovrebbe quindi occuparsi della mera soddisfazione di bisogni di natura materiale, strettamente connessi all’accudimento fisico e pratico, ma invitare i propri assistiti al dialogo o coinvolgerli in attività ricreative adatte alle loro condizioni e ai loro interessi. È con questo spirito di piena considerazione della persona anziana come parte integrante della comunità che l’assistenza domiciliare va intesa e praticata.

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