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Tra meno di un mese, il 15 settembre, si celebrerà la Giornata Nazionale della Sla, giunta alla sua tredicesima edizione. La malattia insorge, in genere, in età adulta per cause sconosciute. Secondo Viva la Vita Onlus ogni anno vengono diagnosticati in Italia 1.000 nuovi casi di Sla e sarebbero circa 3.500 le persone che ne sono attualmente affette, con prevalenza (ovvero numero di casi presenti sulla popolazione) in aumento.

Questi dati, purtroppo, sono soltanto delle stime. L’iniziativa di realizzare un Registro Nazionale sulla Sla è appena nata e solo grazie agli sforzi di Aisla, l’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica. Dalle istituzioni, invece, nessuna partecipazione.

I fondi destinati al Fondo Nazionale per la non Autosufficienza, istituito nel 2006 con lo scopo di sostenere economicamente le famiglie dei malati non autosufficienti, non sono mai abbastanza. Lo Stato non si impegna granché al fianco delle famiglie nelle quali è presente un malato di SLA: soltanto poche ore di assistenza da parte della ASL e un contributo economico che copre una parte irrisoria delle spese assistenziali specialistiche necessarie. Come se non bastasse l’assegno di cura è erogato dalle regioni a macchia di leopardo e con enormi ritardi, persino superiori all’anno.

I malati di Sla non possono essere lasciati da soli nemmeno un minuto e l’elenco dei professionisti coinvolti più o meno costantemente nella cura della malattia comprende neurologi, fisiatri, fisioterapisti, logopedisti, pneumologi, gastroenterologi, psicologi e genetisti.

L’assistenza domiciliare è davvero molto importante perché permette ai malati di vivere circondati dall’affetto di amici e familiari. Gli aiuti vanno sempre cercati privatamente e una sola badante non basta. In famiglia, infatti, c’è sempre qualcuno costretto a rinunciare ad una vita normale ed al proprio lavoro per vestire gli abiti del caregiver. La gestione della patologia non dovrebbe essere affidata a persone inesperte, eppure è esattamente quello che succede nella maggioranza dei casi. Il caregiver familiare è una figura dunque determinante ma purtroppo non riconosciuta né tutelata, come avviene invece in altri paesi europei dove la legge è intervenuta a normarne i diritti.

Anche sul fronte burocratico nessuno sforzo è stato fatto per aiutare le famiglie a ottenere i certificati, necessari anche per l’acquisto dei comunicatori e della tecnologia di ausilio: possono trascorrere persino 7 o 8 mesi, 3 per la dichiarazione di disabilità gravissima. Un malato di Sla ha un’aspettativa di vita compresa tra i 3 e i 10 anni, con una media di 3-5 anni. Mentre questo tempo scorre inesorabile i familiari sono costretti a fare la staffetta da un ufficio ad un altro, ricevendo informazioni spesso scorrette da dipendenti poco preparati, sopportando il peso fisico e psicologico di un fardello che le istituzioni si rifiutano di sostenere.

Sembra, insomma, che l’immobilità cui queste persone sono, loro malgrado, costrette sia stata scambiata per invisibilità. Eppure a noi pare impossibile voltarsi dall’altra parte quando gli occhi straordinariamente espressivi di un malato di Sla ci parlano. Sì perché lo sguardo e, a volte, il sorriso, sono le ultime forme di comunicazione di cui dispongono: le usano non solo per rispondere “si” e “no” ma anche per comporre frasi e interi discorsi con l’ausilio della tavoletta Etran, contenente lettere e numeri.

Proliferano così gli appelli degli stessi malati, ai quali desideriamo in particolare affiancarci quando chiedono, ad enormi e chiare lettere, il riconoscimento al diritto di vivere una vita dignitosa, per sé e per i propri familiari. In una società davvero civile, infatti, chi vive da prigioniero -del proprio corpo o dell’amore per i propri cari- non merita solo di più, merita il massimo possibile.

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